Norman Atlantic, la guerra sul ponte per fuggire «Risse e botte …

«L’ho ancora negli occhi, quell’omone, che è passato davanti a tutti e si è seduto nella cesta che doveva essere issata dall’elicottero. Era per i bambini, ma lui restava lì, prepotente e disperato, anche se era piccola per le sue dimensioni. Non sapevo se piangere o ridere». Ute Kilger, un’avvocata 45 anni di Monaco di Baviera, sorride, ma si tira le dita per il nervosismo. In inglese cerca le parole per descrivere ciò che ha vissuto nelle maledette ventiquattro ore sul traghetto Norman Atlantic.


L’esplosione, il fumo, il caos, la corsa ai giubbotti di salvataggio. Ma soprattutto l’abbrutimento che il panico causa nell’essere umano, la spinta verso il più scontato dei lati oscuri. Sorride amara, con lucidità quasi scientifica: «C’erano uomini, grandi e grossi, che spintonavano per salire sulle scialuppe prima delle donne. In alcuni casi anche prima dei bambini, ho visto persone che offrivano denaro. Erano spaventati, non ragionavano».

IL CAOS ERA TOTALE Altri testimoni raccontano che mentre il fuoco avanzava e il traghetto si trasformava in una trappola, nelle ore del terrore che ha rotto gli argini alcuni uomini hanno usato la forza e le minacce per salire prima sulle poche scialuppe che si è riusciti a gettare in mare per il maltempo prima, sugli elicotteri poi. Un turista turco, di Ankara, scuote la testa e dice: «Non c’erano le regole, non c’era organizzazione, nessuna sapeva guidare le operazioni per mettersi per in salvo, dire chi doveva andare prima, chi dopo. E nel caos, nella mancanza di un’autorità credibile, è cresciuta la prepotenza». Leonida Ndreu, 58 anni, camionista forlivese di origine albanese, è stato tra i primi a salire sulla scialuppa, la sua si è rovesciata, è rimasto a lungo nell’acqua gelida, conferma: «Ho sentito anch’io delle minacce, il nervosismo che cresceva, ma penso fosse soprattutto la conseguenza della confusione».
Una signora albanese di 52 anni racconta così le ore in cui si sono fronteggiati prepotenza e rispetto dei più deboli, violenza e solidarietà: «L’equipaggio all’inizio non ci ha aiutato, ma lo capisco, erano impegnati a fermare l’incendio. Poi, però, quando sono state messe le prime scialuppe in mare c’è stato il disastro. La corsa a salire, gli spintoni, le gomitate. Ma quello che più mi ha sconvolto è vedere che una parte dell’equipaggio di origine greca privilegiasse i passeggeri connazionali, facevano salire solo loro. Non è giusto, dicevo; zitta, mi rispondevano. Per fortuna non erano tutti così».

ANZIANI PICCHIATI Il fuoco, il fumo, la speranza di salvarsi spazzata via: ecco, di lì nascono le scene raccontate dai testimoni, «uomini, che picchiavano donne, bambini e anziani, tiravano loro i capelli e li buttavano fuori per prendere il loro posto». «Prima i bambini, poi le donne e poi gli uomini, che però hanno cominciato a colpire per poter entrare per primi», ha detto Perlis, camionista greco.
In questa bolgia infernale, in cui non c’era nulla da bere, da mangiare, nulla che riparasse dal freddo, si rischia di parlare solo della parte peggiore di alcune persone esplosa per la pura e semplice paura di morire. Aylin Akanag, una signora turca che si è salvata e che aspetta di rivedere il marito ancora in ospedale, dice timida: «Non sapevamo cosa fare, tutti spingevano, e noi pensavamo che non saremmo sopravvissuti».
Eppure, l’essere umano non è solo questo. Bisogna tornare allora ai bisturi dell’analisi dell’avvocato tedesco, Ute Kliger, alle dita che tira sempre più forte per scaricare la tensione, ma anche al suo sorriso, in un hotel di Brindisi che la ospita dopo essere stata ricoverata in ospedale. «Non c’è stata solo la combinazione del panico e della prepotenza. No, a un certo punto, quando è arrivato il primo mercantile, quando abbiamo tutti pensato che ci avrebbero salvato e che sarebbe avvenuto rapidamente, il clima è mutato. C’è stata meno tensione, c’è stato qualche sorriso, si incoraggiavamo a vicenda. Parlavamo, nelle lingue differenti che erano a bordo, ragionavamo su come ci avrebbero portato a terra».

I GESTI GENTILI Anche la donna albanese ha interiorizzato quell’alternanza di sensazioni. Anche se su tutto regnava il terrore, anche se pure ieri, al sicuro in una stanza di hotel, ha avuto qualche crisi di pianto, lei si rasserena e ricorda: «Io viaggiavo sola e mi sono ritrovata con un gruppo di persone sulla cima del traghetto. Ci siamo tenuti per mano, ci incoraggiavano, parlavamo delle nostre vite. Un uomo turco, robusto, mi ha stretto forte il braccio mentre stavo per cadere, mi ha salvata. Siamo rimasti così, a lungo, ad aspettare. Poi sono arrivati quelli della Marina militare. Bravissimi, coraggiosi, hanno solo sbagliato a non mandarli prima, ad aspettare tanto tempo. Però loro sono stati impagabili, ricordo uno che mi ha visto spaventata, perché temevo che qualcuno mi passasse davanti per salire sull’elicottero, e mi ha abbracciata. Mi ha detto: stia tranquilla signora, la porto via io, non la lascio qua».

QUASI RASSEGNATI E così Ute, la signora albanese, il turista turco, le centinaia di vite che si sono intrecciate in questa tragedia in cui in troppi non ce l’hanno fatta, hanno tutti ancora in mente la stessa sceneggiatura: l’esplosione nella notte, i camionisti che passano nei corridoi e urlano di uscire, il traghetto sta andando a fuoco, la corsa alle scialuppe, i violenti e i prepotenti, le botte, le bestemmie, le spinte, lo scoraggiamento, il freddo, le ore che non passavano mai e non sapevi se ti saresti salvato, parlavi con il tuo vicino anche se non sapevi nulla di lui. «Quando si è fatto giorno prima abbiamo tirato un sospiro di sollievo, perché potevamo vedere il mare attorno a noi, poi abbiamo tremato perché abbiamo capito quanto le onde erano troppo alte, abbiamo compreso quanto sarebbe stato difficile salvarci» sorride ancora Ute.

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