Monaco di Baviera, Werther, 28/07/2015

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 di Andrea R. G. Pedrotti

Struggente ripresa, alla Bayerische Staatsoper del Werther incarnato da un Rolando Villazón trasfigurato nello spirito e nell’essenza filosofica del romanzo di Goethe messo in musica da Massenet.

MONACO DI BAVIERA 28 ottobre 2015 – Sono impeto e tormento interiore le cifre caratteristiche del Werther andato in scena il 28 ottobre alla Bayerische Staastoper. L’opera di Massenet è simbolo del romanticismo e dello Sturm und Drang quanto lo fu il libro. Lo stesso melodramma ebbe una genesi convulsa, non tanto per la composizione, quanto perché gli venisse consentito di essere rappresentata nella sua lingua originale, il francese, per la prima volta, cosa che accadde solo a Ginevra, diversi mesi dopo il debutto viennese.

Nel bel programma di sala vi sono numerosi saggi interessanti, tuttavia la parola che ricorre di più in esso è sempre la stessa: Liebe. Liebe, l’amore, l’autentico fine dell’uomo che nel suo essere è guidato – e a volte distrutto – dalle passioni. Un’eco del movimento che fece del racconto dell’amore tormentato e represso la sua bandiera; un movimento culturale chiaroveggente: Heinrich Heine aveva profetizzato che “Chi brucia i libri, presto o tardi arriverà a bruciare esseri umani”. Il suo Buch der Lieder (libro dei canti) fu una raccolta, come, in fondo, lo è anche il romanzo epistolare di Goethe. Ed è proprio la scrittura a far da flusso e legame narrativo della tradizionale, ma originale, regia firmata da Jürgen Rose, che ha anche curato scene e costumi,.

Tutti i lati del palco e della scena sono ricchi di scritte evocanti il dolore, il tormento e l’impeto della passione. Lo scrittoio del  poeta si trova sopra un masso esattamente al centro della scena e il resto dell’impianto visivo segue il libretto, con un’ambientazione che si aggira negli anni immediatamente precedenti alla prima guerra mondiale. Pochi, ma essenziali, movimenti registici e molto affidato all’interazione fra i varii personaggi. Scelta giusta, in merito al soggetto e alla personalità degli interpreti a disposizione. Fin qui abbiamo parlato di “simboli”, di “caratteristiche”, oseremmo dire di “stereotipi”, ma il Werther è proprio questo, un campionario di esaltazione dei rapporti umani. È un testo analitico, introspettivo, filosofico. Nessuno più di Rolando Villazón ha saputo, negli anni, decifrare questo personaggio. Il suo Werther è tormentato, passionale, irruente. Vuole Charlotte per sé, solo per sé, e non riesce ad accettare la promessa di matrimonio al rivale, Albert. Villazón si trasfigura, si trasforma, in scena non vediamo più il tenore messicano, ma nemmeno Werther: sul palcoscenico della Bayerische Staatsoper si esternano gli autentici Dolori del giovane Werther. Una passione dirompente e trascendente. Si appoggia ai muri, carezza le scritte, diventa autentica maschera di sofferenza incontrollata; sfoga il suo dolore nelle pagine di un diario che non leggerà mai nessuno. Il libro è il suo confidente e quando il tormento pare non dargli tregua corre, scompagina le carte, si arrampica sul masso centrale, alla disperata ricerca del suo scrittoio. Due particolari della sua interpretazione non per noi indimenticabili. Rolando Villazón guarda Charlotte con l’occhio lucido, sognante e spalancato, le si avvicina e quasi per sbaglio la sfiora: immediatamente egli si ritrae, si guarda la mano, si sente in colpa, poi, quando Charlotte lo lascia solo, viene preso da collera, prende a calci una porta, quasi come il suo Don Carlo nel duetto con Elisabetta di Valois. In fondo Werther non è altro che un incrocio fra un Nemorino tragico e un Don Carlo, afflitto da un amore dirompente che diviene autolesionista e alla fine suicida. Ecco un altro elemento tipico dello Sturm und Drang: il suicidio passionale, è l’altro momento incredibilmente elevato dell’interpretazione di Villazòn. Werther si spara, teme di colpirsi la testa e sceglie il ventre, prolungando la propria agonia, cade a terra come un sacco vuoto, pare morto sul serio, agonizza, diviene completamente bianco in volto e spira fra le braccia di Charlotte.

Vocalmente Villazòn abbandona la spavalderia d’un tempo per affrontare il personaggio con ancor più cura dell’interpretazione e del fraseggio: parole come “amour” o “douleur” sono pronunciate in modo toccante all’eccesso. L’emissione è controllata e omogenea, senza alcuna forzatura. In crescendo vocale nel terzo e quarto atto, con un “Pourquoi me réveiller” accelerato nei tempi rispetto al solito, ma dove riscontriamo un bello squillo nelle puntature acute della lettura dei versi di Ossian, pronunciati con emozionante magistero.

Anche Angela Brower ha dato il suo meglio negli ultimi due atti e la sua invocazione: “pitié” è struggente e manifesta appieno il tormento per essere causa, ma non colpevole, della morte dell’amico che tanto amava. Mezzosoprano di nome ma di fatto soprano di pregevole tecnica e bella interpretazione, è brava a far risaltare il carattere del personaggio. La sua Charlotte è posata e con i piedi per terra, una donna generosa e sensibile, vuol bene a Werther, ma come lo si vuole a un amico. Talvolta la sua voce appare avara di sfumature, ma è impetuosa e generalmente corretta. È un simbolo del letterariamente, ma non solo, ribattuto “non posso, ma restiamo amici”.

Nel cast femminile, a primeggiare è, però, la Sophie di un’ottima Hanna Elisabeth Müller. Di carattere opposto rispetto alla sorella, è sbarazzina e allegra. La voce della cantante tedesca è proiettata e calibrata dal registro grave a quello acuto. Molto belle le sfumature e le variazioni di colore. Assai bravo anche Michael Nagy, come Albert: la voce è bella scura e pastosa. Il suo personaggio è serio, sa quello che vuole, rappresentando l’opposto rispetto a Werther. Lui avrà Charlotte, sa che quella donna è sua e vive di questa sicumera, speculare al disordine emozionale del giovane poeta. Ottimo attore (non a caso interpreterà anche Die Fledermaus nello stesso teatro) è elegantissimo nella figura, in ossequio all’immagine dell’alta società borghese del tempo che fu.

Di pari livello anche gli altri interpreti, ossia Christoph Stephinger (Bailli), Kevin Conners (Schmidt), Tim Kuypers (Johann), Johannes Kammler (Brühlmann) e Anna Rajah (Katchenn).

La concertazione di Asher Fisch risulta pienamente convincente, puntando in maniera decisa sull’esaltazione del tormento. Come detto per l’aria di Werther, i tempi sono leggermente accelerati rispetto al solito e viene sfruttata la pienezza orchestrale nei passaggi chiave della partitura.

Molto bene il coro di voci bianche diretto da Stellario Fagone. Il maestro d’armi era Franziska Severin, le luci erano a cura di Michael Bauer e la drammaturgia di Ingrid Zellner.

foto © Wilfried Hösl

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Maria Grazia Pani

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