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di Andrea R. G. Pedrotti
Mefistofele di Boito fa, finalmente, il suo debutto assoluto alla Bayerische Staatsoper di Monaco. Lo spettacolo, straordinario per intelligenza e compenetrazione del profondo significato del testo, onora l’eccezionalità dell’evento, suscitando entusiasmo in ogni suo aspetto.
MONACO DI BAVIERA 29 ottobre 2015 – Capita di andare a teatro e non essere pienamente soddisfatti di uno spettacolo, che sia un Otello, un Falstaff o una Gioconda per una brutta messa in scena e un approccio musicale deludente; è in quel momento che si benedice l’introduzione dei soprattitoli e in quel momento si può ritrovar pace nel gustare l’insuperabile arte di Arrigo Boito nel ricamare con incanto fascinatore catene di versi.
Questo succede con gli spettacoli deludenti, ma se ci si ritrova ad assistere a uno spettacolo capace di riunire i migliori artisti che si possano sognare a livello mondiale, una regia intelligente, di straordinario rispetto musicale e del libretto ma soprattutto se a ricamare catene non più solo di versi, ma di note musicali, è sempre Arrigo Boito, la sindrome di Stendhal diviene ognora prossima. Non basta, tuttavia, poiché Boito ha deciso di deliziarci con uno dei più grandi soggetti della storia della letteratura, ossia il Faust di Johann Wolfgang von Goethe. Quello della Bayerische Staatsoper non è stato un semplice Mefistofele, ma un’autentica, esaltante, rapsodia boitiana. Il genio padovano, come nessun altro, è capace di eccezionali concatenazioni di idee, riunite in quella confusione ordinata esplicitata grazie all’estro di una delle più straordinarie menti dell’Ottocento europeo e, forse, di ogni tempo.
La regia di Roland Schwab presenta un impianto scenico pressoché fisso ai lati, con due grandi impalcature semicircolari. Gli elementi mobili sono tutti al centro e vengono composti e scomposti con fine abilità. Il demonio è un bulletto, simbolo di degrado, perdizione e appiattimento socio-culturale; i suoi accoliti sono un insieme di debosciati senza passato e senza avvenire, dediti agli eccessi e alla lussuria, totalmente privi di anima e sensibilità. Mefistofele si aggira con le sue amanti lascive calmo e pacato, intriso di profonda ambiguità. Questa è una lettura più che corretta, poiché – non scordiamo – anche Lucifero altri non è che un angelo ribelle e, come tutti gli angeli, privo di sesso, secondo i testi, anche se qui viene riverberato in una chiave di totale comando atto alla perdizione, anche erotica. È, anche questa, un’idea ineccepibile: il male non può manifestarsi appieno, se avvinto da disordine e furore
Il prologo è un capolavoro visivo: Mefistofele comanda i suoi accoliti seduto su un trono onnipresente durante l’opera, ora in posizione centrale, ora laterale, sulla sinistra appare la luminosa scritta “Open”. È lo stesso protagonista a dare inizio all’opera omonima, portando in proscenio un vecchio disco in vinile e ponendolo su un vetusto grammofono, che verrà coperto da un telo durante il dipanarsi del suo bieco ordito. Molto intelligente l’idea di proporre come musica proveniente dall’antiquato strumento meccanico le parti affidate alla banda fuori scena, cosicché la scrittura musicale venisse rispettata appieno. Il prologo di questo Mefistofele ricalca perfettamente il lavoro di Goethe, con il suo prologo sul teatro: il demonio discute con il direttore d’orchestra se sia o meno il caso di cominciare la musica ed è a quel punto che esplode la magia di Boito, ossia nel momento in cui René Pape e Omer Meir Wellber abbiano deciso che lo spettacolo poteva avere inizio.
Il prologo in cielo è meraviglioso: Mefistofele, assiso sul suo trono, mostra ai suoi accoliti e al pubblico un grande schermo che proietta i simboli del progresso e dell’ingegno umano nelle scienze e nelle arti. Il trionfo dell’umanità che il male vuole distruggere: la negazione del positivismo e di Platone, l’apostasia e l’appiattimento dello spirito. Questo è il disegno del diavolo. In completo ossequio filologico alla partitura, il prologo viene interpretato da un coro fuori scena: una richiesta di grandissima difficoltà da parte del compositore, che può aver compimento solo in presenza di un concertatore del magistero di Wellber e di un complesso artistico di qualità straordinaria, come quello bavarese.
Il principio di ogni quadro, da questo momento in poi, sarà preceduto dalla proiezione di espressioni filosofiche e anticipatorie del contenuto e del significato intrinseco di ciò che accadrà in seguito.
Ne corso del primo atto la festa di Pasqua a Francoforte sul Meno diviene una riproposizione visiva della recente Oktoberfest; boccali di birra e abiti tirolesi a salutare la Pasqua, mentre Faust viene deriso dai seguaci di Mefistofele, i quali si prepareranno a scrivere con il sangue, sul suo petto, l’evocativa scritta Reue (pentimento).
La festa viene interrotta dal demonio che fulmina col fuoco la giostra posta sul fondo della scena e getta tutti nel grigiore. Solo Faust vede Mefistofele nelle vesti d’un frate e discute della cosa con l’amico Wagner. Il dottor Faust è uno studioso anziano e alienato, debole nel carattere e prossimo al tramonto di un’esistenza inconsistente. Come già dicemmo in altra occasione [DVD, Gounod, Faust] Faust è l’immagine non solo delle antiche favole tedesche, fiabe che narravano di oscuri alchimisti, coloro che dettero origine alle pratiche scientifiche durante quello che sarà chiamato Illuminismo. Segue l’esoterismo, che assume veste ragionata, ma non abbandona completamente l’ideale misterico e superstizioso. Faust ricerca in punto di morte ciò che non ha avuto in vita e Mefistofele gli offre la via della perdizione, avvincendolo nel miritico sogno delle “orge ghiotte”. Il diavolo conduce lo studioso, tornato magicamente alla gioventù su una moto, da lui stesso condotta e, indossato il mantello prescritto da Boito, vola via, sopra i tetti, alla volta del conturbante delirio che li aspetterà.
Piccola pausa e la puntuale scena del giardino ci accoglie: Margherita è assisa a un tavolo, in attesa, quando viene raggiunta dall’ormai giovane Faust, che, per avvicinarsi alla giovane strangola una persona all’ingresso della sala. Nel frattempo Mefistofele li attende, dando vita a una scena degna della cinematografia erotica d’alta scuola, si intrattiene con Marta. Margherita è pia e compita, fasciata in uno splendido ed elegantissimo abito rosa è timida e imbarazzata nel parlare con Faust, che si cela sotto il falso nome di Enrico. Qui c’è la piena e coerente attualizzazione della splendida regia di Schwab: ormai indirizzato verso il male Faust stordisce la ragazza con un farmaco (la droga dello stupro), pronto a pascersi viziosamente della sua virtù carnale e a uccidere la sua anima.
Il grandioso sabba romantico è l’apoteosi e anello di congiunzione della Weimar di Goethe con la Weimar che fu capitale della Repubblica che visse in Germania dopo il primo grande conflitto mondiale, in attesa della tragedia del nazismo. Il gusto estetico è quello del grande neorealismo cinematografico, che si accoppia alla perfezione alle note di Arrigo Boito. Dal fondo giungono in gruppo i cittadini “borghesi azzimati da festa”, che elegantemente vestiti incitano Faust cogliere il frutto del suo disegno di diabolica lussuria, ponendosi in cerchio, attorno al falso giovane, stringendo in pugno evocative fiaccole e cadenzando ritmicamente la violenza carnale, perpetrata ai danni di Margherita al centro della loro ridda terrifica. Faust appare sconvolto dalla sua azione, mentre la giovinetta viene trascinata via, ormai esanime.
Il mondo “ora sterile, ora fecondo” di Schwab è l’utero femminile, che fa il paio con il “tracotato atòmo” del preludio, così come la ridda infernale si contrappone parallelamente alla “angelica spira”. La distruzione dell’origine del mondo. Un feto chiuso in un sacco sanguinante viene gettato con sprezzo in un cesto, con partorienti in preda a convulsioni sul palco della Bayerische Staatsoper. Questo gesto, la caduta della generazione futura e della speranza, lancia il grande grido “riddiamo ché il mondo è caduto”. Questa frase è frutto di una strepitosa intuizione di strutturalismo linguistico da parte di Boito: il raddoppio della dentale, mantiene immutata la metrica, fra il verbo “riddiamo” e “ridiamo”, ma sdoppia magistralmente il significato semantico del periodo. Faust pare rinsavire per un istante, quando Mefistofele lo canzona, con la prima delle esplicite citazioni classiche, che hanno qui loro inizio: “anima illusa dalla testa di Medusa”. Pietrificato dall’ipnosi che egli tenterà vanamente nel corso dell’epilogo.
Qui ha inizio l’apoteosi comunicativa tipica di capolavori quali Metropolis o la trilogia del Dottor Mabuse. Come nella pellicola tedesca di Fritz Lang gli oggetti prendono vita, gettando ognuno nel girone della sindrome di Stendhal: si perdono i punti di riferimento, le strutture metalliche girano vorticosamente, il palcoscenico si scompone in tre parti che salgono e scendono alternativamente, mentre gigantesche fiammate partono dal fondo. Un mirabile gioco di luci aumenta il tetro effetto visivo. Il sabba diviene diabolicamente inebriante, la musicalità è vorticosa: il numeroso coro, le comparse e il corpo di ballo, sono impegnate nell’infernale danza rituale. Tutti questi atti comunicativi e narrativi sono mescolati assieme. Stendhal avanza e l’ultima nota arriva poco prima che le vertigini e la tachicardia abbiano il sopravvento. Una signora seduta avanti a noi sobbalza più volte sulla sua poltrona. Un effetto capace di evocare il senso ciò che provarono i primi spettatori del cortometraggio dei fratelli Lumière L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat.
Il termine del secondo atto conduce all’unico intervallo, preceduto da un’autentica esplosione del pubblico dell’opera nazionale bavarese.
Splendida anche la morte di Margherita: ormai i capelli sono diventati completamente bianchi e la mente è smarrita, rammenta il romantico incontro con Faust. Una Sposa di Lammermoor ancor più disperata. Goethe e Walter Scott: l’apoteosi del romanticismo. Faust er ist von Reue geplagt (è tormentato dal rimorso). Margherita ha assassinato il figlio nato dalla violenza di Faust, prima delira, poi si dispera, prima di (e questa è geniale intuizione di Schwab, che avrà suo compimento nel finale con la vittoria di Mefistofele), sprofondare all’inferno, anziché ascendere al cielo. È il trionfo del demonio: la donna, l’origine dell’umanità, distrutta nel corpo e nell’anima.
L’introduzione orchestrale al terzo atto, con il suono degli ottoni, è già un richiamo all’Arcadia e al rituale del sacrificio, che molto materiale offrì a studiosi come René Girard. Il francese ricercò la congiunzione fra la violenza e il sacro, specialmente nel modello classico. Classicità per eccellenza è il sabba del quarto atto: la visione della distruzione di Troia, il canto delle coretidi, Pantalis a fungere da corifea e l’ennesima intuizione ritmica di Boito, ossia l’utilizzo del “trimetro giambico”, l’esametro, il canto degli Aedi, la mirabile metrica greca per eccellenza. Giunge l’emozione e torna Stehndal, che insiste sino a diventare irresistibile nel crescendo musicale, che ci porta al tema (che tornerà nel finale per voce di Mefistofele) del “Amore! mistero! celeste, profondo! Già il tempo dilegua! cancellasi il mondo!”
Troia distrutta, dopo la violenza di Margherita: l’orrore del disfacimento dell’umanità, paventato nelle proiezioni del prologo, come stupro bestemmiatore di Cassandra violentata da Aiace Oileo, sebbene avesse si fosse rivolta alla statua di Atena, come seppe raccontarci Apollodoro.
La corte di Elena ha sede in un gerontocomio: gli ospiti sono figure cineree, quasi indistinte, la regina è un’inserviente, Pantalis e Nèreo due infermieri. Torna il mantello sulle spalle di Faust: un accappatoio grigio come lo fu il frate che lo portò alla perdizione. La stessa veste indossata da ogni figura vagamente umana nella casa di cura.
L’epilogo è splendido e commuovente, Faust muore e Mefistofele vince, ma non del tutto. Torna il coro dei cherubini e delle falangi celesti, che mostrano come l’umanità non possa sconfiggere il male, ma nemmeno esso potrà vincere l’uomo. Torna il tema del prologo, del duetto fra Elena e Faust, della perdizione dell’anziano studioso, tutta l’opera viene condensata. Il grammofono ricomincia a girare, il demonio tenta di distruggere il disco, ma la musica dell’anima segue, egli pare quasi in preda a una paralisi, chiama Faust, tenta di ipnotizzarlo ancora, ma vanamente.
In fondo Mefistofele è cattivo, perciò, etimologicamente (dal latino captivus), anch’egli prigioniero di qualcosa, forse di se stesso.
Faust muore, ha perso, la sua vita è finita come quella di Margherita, colpevole dell’assassinio del frutto del suo stesso grembo. Il demonio rimane, egli ha vinto, ha distrutto delle anime, delle vite, ma non lo spirito d’un popolo unito innanzi alle avversità, che risorge sempre. Orwell ipotizzò un mondo simile a quello sognato da Mefistofele in questa produzione, ma questa messa in scena ci ricorda, il grande errore dei due protagonisti di 1984: Julia e Wiston Smith, prima di essere arrestati dalla psicopolizia affermano “noi siamo i morti!”, frase ribattuta dal teleschermo che controllava le loro vite, “voi siete i morti!”. Meraviglia di spettacoli come questo ci rammentano come l’umanità non sia finita e, curiosamente, ce lo racconta proprio la Germania, la Nazione che cercò di distruggere l’uomo nella sua essenza, a partire da non più di ottantadue anni fa. Questo rappresentazione è la proiezione di ognuno di noi verso il futuro, senza scordare il passato, realizzata con una professionalità e una dedizione ormai internalizzata nei teatri austro-tedeschi. “Noi non siamo i morti!”; questo è il messaggio che dovrebbe giungere anche al nostro Paese, affinché l’arte non decida di immolarsi sul solito “altare bruttato di lupanare”.
La compagnia di canto era quanto di meglio si potesse sognare e tale perfezione limita le nostre possibili esternazioni di elogio. René Pape è il Mefistofele perfetto, vocalmente sicuro e squillante, esibisce un fraseggio invidiabile. Il basso di Dresda è un attore straordinario nella più minuta gestualità: insinuante, carismatico e ballerino di primo livello nelle controscene del quarto atto. Ottima anche la Margherita di Kristine Opolais, sicura e omogenea in tutti i registri, ha abilità di attoriali pari a quelle di René Pape. Indimenticabile per accenti ed espressione nella scena della morte di Margherita, quando le “voci”, come le definisce Boito, la chiamano alla morte. Joseph Calleja è un buon Faust, forse l’emissione risulta troppo fissa nel registro acuto, ma il ruolo è ben affrontato e il personaggio è riuscito. Elena è stata interpretata da una bravissima Karine Babajanyan. Completavano il cast con merito Heike Groetzinger (Marta), Andrea Borghini (Wagner), Rachel Wilson (Pantalis) e Jeshua Owen Mills (Nerèo).
Migliore elemento assoluto della produzione, un insuperabile Omer Meir Wellber: il maestro israeliano regala a noi tutti una incontenibile espressione di grandiosità intellettuale. Non era facile tenere assieme una partitura perigliosa come quella di Mefistofele, ma egli ne offre una strepitosa lettura esplorandone tutti i significati intrinsechi. Scelte dinamiche e agogiche sono mirabili quanto geniali. Tutta la concertazione è vorticosamente irresistibile, quasi si trattasse d’un grande rituale esorcistico dalla demoniaca possessione. Al direttore d’orchestra è stato affidato anche un saggio per il programma di sala dal titolo Mephisto ist immer Außenseiter, ossia Mefistofele è un emarginatoalienatodisadattato, comunque lo si voglia tradurre.
Inappuntabile l’orchestra ed eccezionale la prestazione di un coro, sia di adulti sia di voci bianche, dalla pasta vocale unica, dotato di una dizione perfetta, una straordinaria abilità scenica. Di rilievo la perizia nell’eseguire la fuga del sabba romantico.
Le scene erano di Piero Vinciguerra, i costumi di Renée Listerdal, le luci di Michael Bauer, le proiezioni di Lea Heutelbeck, la coreografia di Stefano Giannetti, il maestro del coro Soeren Eckhoff, il maestro del coro delle voci bianche Stellario Fagone e il drammaturgo Daniel Menne.
Al termine ovazioni per tutti e pubblico in piedi per il direttore e concertatore.
foto © Wilfried Hösl
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