20 giugno 2014 – Fortunatamente, nulla a che vedere con un incendio. Monaco di Baviera “brucia” come esempio di migrazione di successo al software libero di una grande pubblica amministrazione, per tutte le aziende del software proprietario.
Un esponente di una di queste aziende ha scritto che “parlare di successo per la migrazione al software libero di Monaco di Baviera è un insulto all’intelligenza e al buon senso”. Personalmente, ritengo che un’affermazione di questo tipo, oltre a presunzione e maleducazione, dimostri solo la tensione che deriva dal successo – riconosciuto dai fatti – delle migrazioni al software libero, e del crescente interesse intorno a programmi come LibreOffice.
Tra l’altro, il giudizio sull’intelligenza e il buon senso, sia degli uomini politici che hanno governato la città di Monaco di Baviera negli ultimi dieci anni sia del team che ha gestito il progetto, non è basato su dati pubblici ma su uno studio effettuato dalle stesse aziende che vogliono dimostrare l’insuccesso del progetto, che usa dati “stimati” e comunque privi di riferimento a fonti attendibili.
Un esercizio a cui alcune aziende non sono nuove, visto che hanno già utilizzato la “complicità” di società compiacenti per la campagna FUD (fear uncertainty and doubt) contro Linux “get the facts” (il report di uno degli incontri – del 2004 – si trova qui).
Ovvio, al mondo del software proprietario “brucia” il fatto che Monaco di Baviera abbia deciso a favore del software libero nonostante siano intervenuti nomi illustri per scongiurare la “tragedia” (davanti al sindaco della città, vestito in costume per sottolineare il valore dell’indipendenza). C’è un problema di lesa maestà che non ha precedenti per il software proprietario, che è sempre stato abituato a condurre le danze (soprattutto la pubblica amministrazione, dove può mettere in campo la sua potenza di fuoco nelle attività di lobby).
Le argomentazioni usate contro Monaco di Baviera sono le stesse da dieci anni, e ormai hanno il suono di un disco rotto: il Total Cost of Ownership, la sicurezza, l’inadeguatezza del software libero in ambito enterprise, e così via. Com’è logico, si sorvola sui problemi che rendono il software proprietario improponibile almeno nella pubblica amministrazione: lock in, formati pseudo-standard, trasparenza (?) delle licenze (e contenuti vessatori delle stesse), e il fatto che i soldi delle licenze stesse non transitino assolutamente per il Paese in cui vengono utilizzate, ma finiscano prima in Irlanda e poi negli Stati Uniti (e quindi generino ricchezza solo a chi appartiene all’ecosistema).
Peraltro, anche quando si parla di TCO il confronto tra il software proprietario e il software open source va a vantaggio di quest’ultimo, in quanto l’effetto del lock in scatena costi invisibili largamente superiori a quelli delle licenze e dei servizi (che oggi, finalmente, cominciano a essere attribuiti agli autori dello stesso lock-in).
Nel caso della sicurezza, la valutazione è molto più facile, perché ci sono database pubblici per gli advisory – sconosciuti agli utenti – che permettono di confrontare le due situazioni partendo da dati neutrali (se non ci credete, fate un giro nell’area “community” del sito www.secunia.com). Per non parlare delle sorprese del Patch Tuesday…
Sull’inadeguatezza del software libero in ambito enterprise parlano i numeri delle organizzazioni che lo utilizzano: il Governo degli Stati Uniti, il Governo Francese, l’Esercito Olandese, la NATO e il CERN. Sono sufficienti?
Forse, la goccia che ha fatto salire la tensione sono i risultati della consultazione pubblica sulla riforma della PA, dove l’adozione del software libero compare tra le proposte più citate e votate dai cittadini. Un segnale importante, soprattutto per il mondo della politica. E Monaco di Baviera, nel frattempo, continua a “bruciare”.