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Roma. Pentling è un paese nei dintorni di Ratisbona dove Joseph Ratzinger, prima d’essere eletto Papa, amava trascorrere parte delle vacanze estive. Ed è lì, in quel borgo di seimila anime, che si sarebbe ritirato una volta che Giovanni Paolo II avesse accettato le sue dimissioni da prefetto della congregazione per la dottrina della fede. Cosa che non avvenne mai, visto che Wojtyla e la Provvidenza per lui avevano altri progetti in serbo. A Pentling celebrava la messa come un parroco, lontano dalle luci di San Pietro. Oggi, la Libreria Editrice Vaticana pubblica i testi di alcune omelie di quelle celebrazioni tenute nella chiesetta di San Giovanni. E’ – come nota nell’Introduzione il direttore della Lev, don Giuseppe Costa – una sorta di “miniatura dei grandi temi che fanno la riflessione teologica e pastorale di Joseph Ratzinger”, come il significato dell’eucaristia, il rapporto tra fede e ragione, tra libertà e verità, tra fede e politica. Sono dieci testi in tutto, raccolti tra il 1986 e il 1999.
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Quando le registrazioni di quelle prediche giunsero nel monastero Mater Ecclesiae, Benedetto XVI reagì stupito, scrive nella Prefazione: “Mi accostai alla lettura con una certa curiosità e anche con un po’ di scetticismo. E tuttavia, ben presto leggere quei testi è diventato per me non solo un incontro con la Parola di Dio, che avevo cercato di interpretare come realtà presente, ma anche un viaggio del cuore nei bei giorni passati”. E così – aggiunge – “ho pensato che magari poteva essere bello anche per altri, per così dire, andare a messa la domenica insieme a me e ascoltare il Signore”. A sfogliare le pagine si coglie quanto siano attuali le parole pronunciate allora da Ratzinger. Nel 1986 chiedeva se non ci fosse “forse in noi una sicurezza di sé che è insieme indifferenza e scontentezza, un malanimo della fede, una acrimonia nella chiesa che più nulla hanno a che fare con la vicinanza di Gesù? E non è che ci sentiamo troppo sicuri?”. L’anno dopo, tornava sul punto, ammonendo su come non fosse affatto scontato che “la generazione successiva sia di nuovo chiesa”, perché quest’ultima “deve di nuovo ridestarsi nelle anime, deve nuovamente formarsi”. Guardava le statistiche, l’allora capo del Sant’Uffizio, soprattutto quelle che “evidenziano quanto oggi la chiesa rischi di estinguersi, quanto sia grande la minaccia che essa non sia più lo spazio nel quale le generazioni si incontrano e assieme imparano quello che hanno in comune e che tutte le sostiene”. Il troppo filosofeggiare, insomma, rischiava di far crollare l’edificio.
Da qui l’esigenza di ricordarsi che “all’inizio della chiesa c’è sempre un atto di fede. E se manca questo, se non abbiamo questo coraggio di credere in lui e nella sua forza viva nel mondo, tutto il resto non basta”. I discepoli, osservava, “si ritrovano insieme e non discutono della costituzione della chiesa”. Discussione che è certo importante, “ma ha i suoi limiti: non può generare la comunità. Può organizzarla nei dettagli, quando già sussiste. Ma prima deve esserci”. A noi, sottolineò ancora, “non compete chiederci come la storia andrà a finire. Ogni volta che pretendiamo di risolvere e dare noi un giudizio sull’insieme della storia e della nostra vita, ci smarriamo”. Ratzinger faceva un esempio concreto: “Quando cominciamo a voler dire a Dio se doveva permettere Auschwitz oppure no, scegliamo una prospettiva che non conosciamo, e alla fine non possiamo che essere scontenti e confusi. Il compito che ci è dato è un altro: non elucubrare, ma vivere”.
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