Se per i suoi contemporanei la figura di Ludwig di Baviera (1845-1886), il re visionario amante dell’arte, mecenate di Richard Wagner e costruttore di castelli fiabeschi, fu fonte di scandali e pettegolezzi (non solo in vita, data la morte misteriosa), per la Germania odierna è una continua sorgente di introiti turistici, artistici e cinematografici. Nelle sale tedesche è appena uscito come film di Natale Ludwig II (diretto da Peter Sehr e Marie Noëlle), l’ottava pellicola biografica incentrata esclusivamente sull’eccentrico sovrano, dato che se si contassero le sue apparizioni nei film dedicati ad altri personaggi dell’epoca (come Wagner o Sissi) il bilancio salirebbe. Ma tutti sanno che il capolavoro del gruppo non l’ha firmato un compatriota del re, bensì un aristocratico regista italiano: Luchino Visconti. Era il 29 dicembre 1972, proprio quarant’anni fa, quando Ludwig venne presentato in pompa magna a Bonn di fronte alle autorità della Repubblica Federale. VISCONTI si stava ancora riprendendo dall’ictus che lo aveva colpito a luglio, poco dopo la fine delle riprese, lasciandolo semiparalizzato e costringendolo ad abbandonare l’idea di un film tratto da La montagna incantata di Thomas Mann, che insieme a La caduta degli dei (1969), Morte a Venezia (1971) e Ludwig, avrebbe dovuto comporre la sua «tetralogia tedesca». I positivi riscontri critici e di incasso che il film ebbe (solo in lire guadagnò oltre un miliardo e mezzo), ne mitigarono comunque lo sconforto. Oltre a scritturare come protagonista il suo pupillo Helmut Berger (del quale Billy Wilder disse: «Curioso che il più grande attore italiano sia un austriaco»), il regista persuase Romy Schneider a riprendere il ruolo di Sissi (l’amata cugina di Ludwig), promettendole di farle interpretare la vera Elisabetta d’Austria, cinica e disillusa, non quella zuccherosa che le aveva dato la celebrità: il pubblico gradì lo stesso. Uscito in Italia nel 1973, Ludwig vinse tre David di Donatello nelle categorie miglior film, regia e attore. Il fotografo Armando Nannuzzi e lo scenografo Mario Chiari, invece, si portarono a casa due meritatissimi Nastri d’Argento, mentre Piero Tosi, fedele costumista di Visconti sin da Bellissima (1951), conquistò la sua terza nomination all’Oscar. COME SCRISSE Gian Luigi Rondi, nel narrare la storia del giovane sovrano, in bilico fra arte e follia, ideali e pulsioni, Visconti, «si muove a suo agio in questo Ottocento germanico tutto contraddizioni, errori, lampi di genio e ce ne propone, ancora una volta, una esatta e meditata interpretazione culturale, all’unisono con i personaggi, in accordo con le loro indoli, i loro squilibri, le loro illusorie aspirazioni. Guardando alla storia con l’animo del romanziere e al romanzo con la dignità dello storico». E ammantando il tutto di dolorosi risvolti autobiografici.
Angela Bosetto