di Giulio Giallombardo –
Il messaggio è chiaro: Emma Dante sta a Richard Strauss come Palermo a Monaco di Baviera. Il compositore tedesco, si sa, non ebbe vita facile tra i suoi concittadini bavaresi e, così, la regista, al debutto al Teatro Massimo, ha voluto esorcizzare il suo sofferto stato di “esule” con un ritorno in grande stile nella sua città. In questo modo, il Feuersnot di Strauss, che ha inaugurato la Stagione 2014, si carica di un significato autoreferenziale che pervade tutto l’allestimento, a discapito della stratificata e complessa tessitura drammatica dell’opera.
L’inizio è un preludio del preludio. Il palcoscenico del Massimo appare, a sipario aperto, senza quinte, né scene. Solo tante sedie sospese in aria che sanno troppo di déjà-vu. Mentre gli orchestrali accordano gli strumenti, la scena si riempie di attori imbellettati, che girano in tondo col cicaleccio gestuale tanto caro alla regista palermitana: un ridondante schematismo che segnerà indelebilmente tutto lo spettacolo. Nel frattempo, dall’alto cala la scena: una parete piena di finestre davanti alla quale si svolgerà tutto il breve “poema cantato” di Strauss.
Se da un lato la partitura è maniacalmente attenta al particolare colore timbrico di ogni scena, dall’altro, la regia appiattisce tutto verso una chiassosa coralità da “sagra di paese”. Nella lettura della regista palermitana mancano i chiaroscuri, non ci sono sfumature e il vitalismo dell’opera risalta solo come gesto reiterato e svuotato di vera forza drammatica. Del tutto trascurato, poi, il simbolismo iniziatico dell’opera, la dimensione magica è ridotta a folklore, ed anche nell’applaudita scena finale, in cui i trenta attori – che hanno comunque dato il massimo – si trasformano in fiamme, non si va oltre il facile effetto alla Momix. La nudità, come spesso avviene nel teatro della Dante, è ostentata e diventa orpello decorativo, toccando i suoi “vertici” nel lungo valzer che segue il bacio rubato tra i due protagonisti e, nel finale, quando la coppia Diemut-Kunrad appare seminuda da dietro la finestra, dopo il cessato sortilegio.
Di tutt’altra qualità il cast vocale. Sia il Kunrad di Dietrich Henschel che la Diemut di Nicola Beller Carbone, pur prestando il corpo al “gioco” della regista, lasciano affiorare due caratteri vocali incisivi e vigorosi, dai declamati netti e vibranti, mentre la direzione di Gabriele Ferro, gradito ritorno sul podio dell’Orchestra del Massimo, sottolinea con perizia ogni angolo della partitura. Gli applausi sfrenati del pubblico palermitano (che non è quello bavarese) suggellano il successo: Emma Dante non è Strauss ed è tornata nella sua città. Per restarci.
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